LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE SE SAI USARE I FALLIMENTI"

creata il 3 giugno 2012

 

 

Una storia quasi normale

Una singolare successione di fallimenti “istituzionali” punteggia la mia carriera intellettuale. A posteriori – nachträglich – si configura un senso compiuto come quello che cerco di descrivere in questa pagina.

Istituto di Semiotica Medica (novembre 1963)

Un grigio pomeriggio d’autunno milanese in via Pace al 6, là dove per tanti anni due giorni alla settimana prestò servizio gratuito nell’ambulatorio di Dermatologia alle dipendenze del prof. Crosti mio padre, lui diceva per mantenersi aggiornato sulle nuove patologie. (Ricordo il giorno in cui tornò a casa raggiante per aver diagnosticato un leproma).

Sono al Padiglione Bertarelli, primo piano. È la mia prima esercitazione di Patologia Medica. Dalle 14 alle 17 raccolgo meticolosamente l’anamnesi di un caso molto complesso, un operaio attrezzista (il significante è per me nuovo e mi faccio descrivere minutamente la sua attività). In tre ore riempio tre pagine fitte di appunti. Alle ore 17 il “giro” rituale del primario, tale Elio Polli. L’assistente gli presenta il caso. Se la sbriga in due minuti, con una comunicazione gergale, zeppa di termini tecnici, che non hanno alcun riferimento all’anamnesi, un po’ romanzesca, da me elaborata. Per il primario va bene così e passa rapidamente all’altro letto. Mi risuona il primo campanello d’allarme sulla scientificità della clinica medica.

Istituto di Anatomia Normale (settembre 1961-novembre 1965)

Al termine del mio internato in questo Istituto, diretto da Angelo Bairati, da dove fui espulso per aver irriso l’assistente favorito, che tutti chiamavano “Elizabeth Taylor” perché era un bel tenebroso dagli occhi azzurri (ricordo ancora la lavata di capo dell’aiuto, tale Salvatore Iurato), avevo ottenuto di lavorare a una tesi sperimentale di immunologia in collaborazione con il prof. Pernis, della Clinica del Lavoro (quando non lavorava per far soldi in America). Dovevo verificare al microscopio elettronico la reazione del linfonodo popliteo del coniglio, dopo aver iniettato del quarzo nella zampa, nell’ipotesi che il sistema zampa-linfonodo potesse funzionare da modello sperimentale di silicosi. Non avendo ottenuto nessun risultato – risultato in sé pur interessante non solo per l’interessato bidello, che si cuccava conigli sani per lo stufato – dovetti shiftare su un altro argomento. Appresi la tecnica immunologica di Jerne: una variante della reazione di Wasserman di spostamento del complemento, adattata per la conta delle plasmacelle produttrici di anticorpi. Seminavo su una piastra di agar contenente emazie di bue un frullato di milza di topo a cui era stato somministrato l’antigene; alla fine di un periodo di incubazione di circa un’ora, aggiungevo del complemento per ottenere, in corrispondenza di ogni plasmacellula secernente anticorpi, un area ben visibile di emolisi. Tuttavia, siccome non avevo più tempo per un esperimento originale, dovetti compilare alla bell’e meglio una tesi utilizzando dati di laboratorio già acquisiti da altri, sull’effetto adiuvante dell’endotossina batterica nella produzione di anticorpi, valutata con il metodo di Jerne. Risultato fallimentare: 110 senza lode.

Istituto di Biometria e Statistica Medica (1966-1972)

Il direttore dell’Istituto, Giulio Alfredo Maccacaro, barone di sinistra, ai tempi del compromesso storico strisciante, messo in cattedra dal preside di Facoltà, il cattolicissimo Cattabeni, che conobbi al corso di Statistica Medica e con cui apparentemente simpatizzai (e viceversa), mi aveva affidato un favoloso argomento di ricerca (“favoloso” lo giudico ora a distanza di quarant’anni, dopo l’esplosione dei PC): l’archiviazione automatica su calcolatore di dati medici. Mi assegnò il compito (e una borsa di studio dell’IBM) con un sorrisino sulle labbra, come dire: lavoro d’archivio, lavoro secondario. Stupidamente presi sotto gamba l’incarico, sognando di diventare ricercatore degno di temi più importanti, per esempio la modellistica matematica delle funzioni fisiologiche. Il fallimento cominciò dal metodo di ricerca che il barone mi impose di applicare. (Chi arriva a essere ordinario ha perso ogni sensibilità per la ricerca e applica acriticamente metodi appresi da giovane.) Dovevo codificare i dati medici, in particolare radiologici (in collaborazione con il servizio di Radiologia dell’Ospedale di Niguarda), secondo un “formato fisso”, come quello che si usa per raccogliere i dati di un esperimento di laboratorio, finalizzati a un’analisi statistica standard, tipicamente per l’analisi della varianza di esperimenti fattoriali. Fatal error, dicevano all’epoca i compilatori dei primi computer, che occupavano due stanze con la memoria di un moderno telefonino. Le odierne cartelle cliniche computerizzate non funzionano così.

Per la verità, ebbi l’oscura e timida intuizione che si potesse applicare un “formato variabile”, ai tempi proposto dal prof. Korein del Bellevue Hospital di New York. Ma il barone di sinistra accoglieva le mie timide proposte di cambiar metodo con lo stesso sorrisino beffardo di sempre. Riteneva che noi di medicina non avessimo le “attrezzature intellettuali” per affrontare i problemi linguistici delle cartelle cliniche. Aveva ragione, ma io continuavo, nonostante tutto, a interessarmi di linguistica (ai tempi voleva dire Chomski; de Saussure era ignorato anche a Lettere) e di metafisica aristotelica, per cui ero irriso in Istituto (anche perché in statistica inclinavo verso posizioni bayesiane e soggettivistiche, alla Savage e De Finetti, un vero e proprio snobismo nell’ambiente in cui mi trovavo, che era pesantemente connotato in senso frequentista e oggettivista).

Fui cacciato dall’Istituto per aver chiesto un adeguato compenso economico per la revisione della pessima traduzione di un libro di statistica, fatta da una baronessa amica del barone e mai pubblicata. Avevo già tre figli e sapevo, con la nascita della terza figlia, che non avrei mai fatto carriera in Università, avendo deciso di non recarmi più in Istituto il sabato mattina.

Ecole Freudienne de Paris (gennaio-giugno 1977)

Dopo tanti fallimenti una psicanalisi si impose quasi da sé. Ciò non interruppe la catena dei fallimenti. L’ultimo fallimento fu la passe, proprio all’interno della mia analisi.

La passe fu il bizzarro rito di passaggio escogitato da Jacques Lacan per fissare il mitico momento di transizione in cui il giovane analizzante si “autorizza” a fare funzione (oggi uso questa terminologia) d’analista. In posizione di passant, il pretendente al titolo di AE (analiste d’école) doveva riferire a due passeur (letteralmente “traghettatori”), suoi coetanei, come durante la propria analisi si era autorizzato a diventare analista. A loro volta i passeur, finita la recita del passant, dovevano riferirne al jury d’accueil, formato dai presbiteri della scuola, i quali sulla base delle loro testimonianze avrebbero formulato il verdetto: degno o non degno di entrare nella Scuola. Come dire: gratta uno psichiatra e sotto sotto scopri il giurista, che opera nel tribunale della ragion psicanalitica.

Nel mio caso non ci fu alcun verdetto, perché la Scuola da lì a poco si sciolse. Ho descritto il fallimento della mia passe allegoricamente in un breve articolo, intitolato L’altra clinica, pubblicato sul primo numero della rivista “Freudiana” (1982, p. 111), narrando il “passaggio” di Janos Bolyai dalla geometria euclidea alla non euclidea. Per consolarmi del mancato riconoscimento, su consiglio della mia prima moglie, intrapresi la specializzazione in Psichiatria, da cui uscii questa volta con il verdetto di lode (novembre 1981).

L’ultimo fu il fallimento più difficile da digerire; mi ci vollero vent’anni di tempo, di cui i primi furono di depressione tremenda, al limite del suicidio, come giustamente deve succedere a chi si immerge fino al collo nel sintomo dell’altro. La passe era infatti il sintomo di Lacan che voleva dimostrare all’IPA, da cui fu estromesso nel 1963, che anche lui era in grado di formare analisti. Oggi ne sono uscito definitivamente e sono uscito da tutte le scuole psicanalitiche, che considero delle lobby affaristiche, tinteggiate di ortodossia (non importa quale dottrina si vende, purché si venda). Sono uscito dal movimento psicanalitico ufficiale con un risultato che si prospetta di nuovo fallimentare: il progetto di una metaanalisi. Penso, infatti, che possa esistere una forma di analisi dell’analisi, non più individuale (a due) ma collettiva (a tre, almeno), dove i ruoli di analista e analizzante non siano più fissi ma variabili.

Qualcosa si ripete, quindi si può continuare. Dopo tutto, la metaanalisi è una forma di passe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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